Cottolengo, altro che “mostri deformi” tenuti in vita ad oltranza

prolife.jpgAvvenire 24 Maggio 2009

di Marina Corradi

Porta Palazzo, Torino sembra una casba, un mercato mediorienta­le ondeggiante di chador, vo­ciante di richiami maghrebini. Poi giri a destra, e ti si para davanti il Cotto­lengo con le sue imponenti intermi­nabili facciate. La strada si fa silenzio­sa. Caritas Christi urget nos, è scolpito sull’ingresso, la carità di Cristo ci spro­na.

Entri. Sotto ai tigli secolari ti sem­bra d’essere in una città diversa. 112 mila metri quadri di padiglioni, 3000 pasti al giorno, una mensa per i pove­ri, una scuola per infermieri, un mo­nastero di clausura, il seminario, l’o­spedale, e poi le case per disabili e an­ziani, in tutto oltre seicento letti. Una città, davvero.

Ti inoltri per i viali in un viavai di suore in veste bianca – ce ne sono oltre seicento qui – e di ospiti che camminano adagio, claudicanti, o in carrozzella. La reazione istintiva del vi­sitatore è di inquietudine – quella che provi quando immagini di dover vede­re da vicino il dolore. Del resto, un’au­ra di mistero gravava un tempo su que­sta Piccola casa della Provvidenza. «Laggiù stanno i mostri», si diceva a To­rino. Lo dice ancora del resto, sull’E­spresso, Giorgio Bocca, che ha scritto di «un culto della vita ad ogni costo che lascia perplessi i visitatori della pia i­stituzione del Cottolengo, dove tengo­no in vita esseri mostruosi e deformi».

E dunque chi entra immagina una im­mersione nel dolore. Belli i viali albe­rati, ma, dietro quelle finestre? Don Carmine Arice, responsabile della Pa­storale della Casa, è un pugliese arri­vato qui da oltre vent’anni. Ci porterà per i reparti, in un labirinto infinito di corridoi e stanze e sotterranei dove, ti fa notare, un uomo in carrozzella può andare ovunque senza incontrare un gradino: e sì che l’anno di fondazione della casa precede di 150 anni le leggi sulle ‘barriere architettoniche’. Quel prete, san Giuseppe Cottolengo, ci a­veva già pensato. Passi per l’ospeda­le con gli ambulato­ri affollati , riesci di nuovo, verso la chiesa. Qui il via vai delle suore si fa più intenso.

Allo scade­re dell’ora vanno e vengono le sorelle che si alternano per tutto il giorno nella laus perennis. C’è sempre qualcuno, in questa chiesa, che prega. Sentinel­le, che s’alternano alla guardia. Perché pregare, diceva il fondatore, è ‘il pri­mo lavoro’. Quando aveva bisogno di nuove strutture, fondava un nuovo mo­nastero di clausura. Quasi che vera­mente fondante fosse il pregare. Sin­golare logica, pensa fra sé il visitatore del 2009, a tutt’altro sguardo abituato; ma si direbbe, a giudicare dall’allar­garsi prodigioso di questa casa dal 1832, che funziona.

E siamo arrivati ai Santi innocenti, il reparto dei ‘mostri’ nella leggenda popolare. 122 ricovera­ti, quasi tutti disabili gravi. Morti or­mai i macrocefali dalla testa enorme, gli ospiti qui sono quasi tutti handi­cappati anziani, età media 65 anni ( da quando esistono le ecografie, certi fi­gli raramente vengono al mondo. Li in­dividuano, e vengono eliminati). Ai Santi innocenti i ricoverati sono di­visi in dieci ‘famiglie’, ciascuna con u­na propria casa. Grandi stanze lumi­nose, odore di pulito. Qualche ospite passeggia e risponde al saluto degli in­fermieri con un gesto di familiare con­suetudine. Una, ancora giovane, esile, un moncone al posto di una mano, al­l’abbraccio di una suora risponde pri­ma con uno scuotersi spastico del bu­sto; poi le si calma fra le braccia. Le ri­coverate qui, anche le più vistosamen­te colpite da una disabilità che ne an­nebbia lo sguardo o rende incerto il movimento delle mani, lavorano. Il la­vorare con un senso, e uno scopo, al Cottolengo è considerato essenziale per l’uomo.

Allora al pomeriggio trovi le donne ai tavoli dei laboratori, inten­te ad assemblare lentamente pezzi di giocattoli. O, le più abili, a lavorare al­l’uncinetto, le mani che con lucida pre­cisione tramano pizzi elaborati. Una legge da un quaderno spalancato: ‘VII93XC2P’, e tutta la pagina è un sus­seguirsi di formule astruse, scritte a mano. È l’ordine dei punti del merlet­to, spiega la suora; e rimani attonita a contemplare il lavorio di quelle mani. Splendidi, degni di un altare, i pezzi fi­niti. Le donne riconoscono don Car­mine, gli sorridono. Pare un convivio di vecchie di paese intente ad antichi femminei mestieri.

Dov’è, ti domandi, il dolore cocente che paventavi en­trando in queste stanze? Le donne sembrano serene nel loro lavorare, in una dimestichezza affettuosa con le as­sistenti. Forse che il problema di que­ste persone, ti domandi, stia più negli occhi di chi li guarda che in loro? Per­ché noi dobbiamo essere efficienti, au­tonomi, capaci; e allora ci sembra un povero niente, quel faticoso lavorio di dita per assemblare una scatola di ma­tite. Ma loro, le donne dei Santi inno­centi, ti dicono: «L’ho fatto io», e ne so­no contente. Ci han messo un’ora, a or­dinare quei pastelli.

Ma qui, dice don Carmine, «il tempo è al servizio degli uomini, e non gli uomini al servizio del tempo». Armadi colmi di giochi ad incastro per bambini. Banchi incrostati di anni di pitture. I quadri dei disabili sembrano opere di impressionisti, sgargianti, tra­cimanti di colore. Un grande foglio ap­peso al muro è tutto nero: le ospiti lo hanno dipinto così. per raccontare la morte. Un altro è un’esplosione di lu­ce: quello, spiega la suora, è, secondo loro, il Paradiso. Vai avanti e parli meno, e resti assorta a guardare. Certo, nelle mani treman­ti, negli sguardi persi riconosci come un piegarsi della vita sotto al giogo di un antica condanna. Una ferita oscu­ra, originaria, in queste donne è evi­dente. «Dove la ferita è più grande, la domanda è più grande. Queste perso- ne sono come un grido, una più forte domanda di Cristo», dice don Carmi­ne, intuendo ciò che ti stai chiedendo. (Forse per questo, per questa doman­da evidente portata dalla sofferenza, oggi i figli malformati si sopprimono?) No, non ci sono creature ‘metà caval­lo e metà uomo’ qui al Cottolengo, co­me fantasticavano una volta nei paesi del Torinese. Ma solo uomini con un ‘di meno’, che agli occhi dei sani è in­sopportabile. ( E accadeva che li la­sciassero qui con l’inganno. Li porta­vano per una visita e li abbandonava­no, perché quella diversità era onta fra i sani).

Eppure Angela, sorda, muta e cieca, si alza di scatto nell’avvertire la voce a­mica del prete, gli afferra le mani, ini­zia un intenso discorso di gesti che la suora che le è accanto – grossa, beni­gna, materna – capisce. Le risponde. Ridono fra di loro. Oltre la maschera che, fuori, noi sani portiamo, qui den­tro intravvedi cos’è davvero un uomo. Oltre a ogni apparenza. «Vede – dice don Arice – questo giardino, come è perfettamente curato. Le finestre di fronte sono quelle dei malati di Alzhei­mer. Ecco, questo giardino lo curiamo così perché ognuno dei malati che lo guarda ha per noi un valore infinito». È una concezione dell’uomo molto grande, quella che regge questo allar­garsi di case e stanze da 170 anni nel cuore di Torino.

Quando un canonico quarantenne si trovò di fronte allo scandalo della ingiustizia e del dolore: una donna incinta e malata respinta da due ospedali e lasciata morire in u­na stalla. Don Giuseppe Cottolengo cambiò vita. Le sue case nacquero u­na dopo l’altra, senza un progetto,ri­spondendo al quotidiano bisogno. I soldi, all’occorrenza, arrivavano. Si mo­strava evidente, quasi in un’eco di ciò che il Manzoni proprio in quegli anni scriveva, che «la c’è, la Provvidenza». Malati segregati, poveri ‘mostri’ da im­boccare e amare, confluirono nella Ca­sa.

Oggi nuovi poveri premono alle por­te della cittadella dietro a Porta Palaz­zo. Vecchi dementi, lasciati soli in case vuote: la nuova emergenza, sono i vec­chi. La Piccola Casa resta nel cuore del­la Torino del Duemila, crocevia di mil­le etnie, come un segno. Giovanni Pao­lo II qui disse: «Se non si comincia da questa accettazione dell’altro, comun­que egli si presenti, in lui riconoscen­do un’immagine vera anche e offusca­ta di Cristo, non si può dire di amare ve­ramente ». Tutto un altro amore. Tutta un’altra logica, da quella di cui scrivo­no i giornali.

Cottolengo, altro che “mostri deformi” tenuti in vita ad oltranzaultima modifica: 2009-05-29T09:20:43+02:00da gioiaepace
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3 pensieri su “Cottolengo, altro che “mostri deformi” tenuti in vita ad oltranza

  1. È uno scritto molto bello.
    Forse i Parlamentari dovrebbero leggerlo, per trarne ispirazione su cosa sia gestire per il Popolo (fronteggiare i bisogni attuali ed anticipare le soluzioni per quelli previsti a breve.
    Anni addietro (circa 55) avevo un sacerdote a scuola che era stato un breve periodo al Cottolengo (… come se gli fosse sfuggita quella notizia ..ed alle domande non volle rispondere, ma disse …. voi non sapete quanto siete fortunati .. .. e mai più ne volle parlare.
    Io ho percepito che per seguire determinate situazioni occorra una grande forza i.ter.a ed altruismo.
    Nel tuo blog accenni anche ad una necessità di accudire agli anziani che si sta presentando sempre maghiore (il saperla organizzare dal Parlamento , tramite niovi quartieri assistenziali , accanto ad ogni Comune, sarebbe sollirvo e … posti di lavoro ) (ma non credo che il Parlamento sappia fare qualcosa di pensato con altruismo

    • Sai Marina … aver organizzato il Cottolengo e lavorarci o dedicarsi (come le Suore, Sacerdoti, ipotizzo anche frati e volontari) , penso siano persone buone .
      Sono convinto che l,iniziatore `Cottolengo` abbia anche il merito di aver capito che ogni struttura debba essere sosenuta anche con un poco di partecipazione lavorativa degli stesdi ospiti (anche solo come
      nella tua frase … il mettere a posto le matite)
      Ciao!

  2. Buonasera, ho sentito parlare del cottolengo di Torino, si parla di umani con teste di animali vari,c’è chi lo smentisce categoricamente, almeno in Italia.
    Io voglio raccontare la mia esperienza personale, era l’anno 1980, avevo dai 22 ai 24 anni più o meno, in una festa patronale di paese, ho conosciuto una ragazza Svizzera di Moutier, cantone Francese vicino a Berna, si trovava in Italia per le vacanze da parenti.
    Dopo circa dieci giorni è tornata in Svizzera, le ho promesso che l’avrei raggiunta per trascorrere qualche giorno a casa sua, in conpagnia di un mio cugino, sono partito la sera con la mia Mini Minor verso il Traforo del Monte Bianco,siamo arrivati a Berna la mattina presto.
    Gira di qua..gira di la per trovare una segnaletica che ci porti a Moutier a passo d’uomo, ho notato sul marciapiede, fermo e in piedi, un signore di sesso maschile (presumo dalla vestibilità) Ripeto, un signore con la testa da MAIALE, e non era una maschera, in quel momento mi si è gelato il sangue, e mi è venuta la pelle d’oca, anche mio cugino l’ha notato, non ha detto nulla ed è rimasto immobile,
    percorsi qualche centinaia di metri,mi sono rivolto a mio cugino dicendoli,
    “Hai notato quel signore??? Lui mi rispose…Tacci…fammi un favore!!!
    Da allora sono passati quarant’anni, mio cugino si rifiuta ancora oggi di parlarne.
    Oggi ho 64 anni,purtroppo ci penso ancora, e ho pensato di renderlo pubblico!
    Grazie….

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