STRENNA 2010 DEL RETTOR MAGGIORE DEI SALESIANI

Strenna 2010: «Vogliamo vedere Gesù».

«Veramente non c’è niente di più bello

che incontrare e comunicare Cristo a tutti.»[1][1]

[1]VEDI IL VIDEO DELLA STRENNA 

 

 

Carissimi Confratelli,

Figlie di Maria Ausiliatrice,

Membri tutti della Famiglia Salesiana,

Giovani,

 

eccomi all’appuntamento di ogni anno per la presentazione del commento alla Strenna del 2010. Come vero programma spirituale e pastorale, essa ci aiuterà a rafforzare la nostra identità salesiana, a rinvigorire la nostra comunione di mente e di cuore, ad inserirci nella Chiesa come «discepoli ed apostoli» per la costruzione del Regno e la trasformazione del mondo. Oggi più che mai il mondo ha bisogno di Cristo e del suo Vangelo; per questo occorrono persone che fanno del Regno di Dio la causa per la quale vivere, come ha fatto Gesù; è necessaria la testimonianza di discepoli, uomini e donne nuovi, nati non dalla ‘carne’ ma dallo Spirito; servono apostoli impegnati seriamente per la conservazione del creato e per la giustizia, la solidarietà e la fraternità tra i popoli.

 

 

1.   Introduzione: la Strenna e le sue motivazioni

 

Dopo l’appello dell’anno scorso, in cui ho invitato la Famiglia Salesiana a vivere e ad agire come “movimento” in modo da essere più visibile, più significativa e più efficace nel suo servizio alla salvezza dei giovani, nel 2010 vorrei vedervi animati dallo stesso spirito e coinvolti in un progetto condiviso: annunciare il Vangelo ai giovani e portarli così all’incontro personale con il Signore Gesù.

Si tratta di una parola programmatica offertaci dallo stesso Santo Padre che, in una lettera inviata a me in occasione del XXVI Capitolo Generale degli SDB, scriveva:

«L’evangelizzazione sia la principale e prioritaria frontiera della loro missione oggi. Essa presenta impegni molteplici, sfide urgenti, campi di azione vasti, ma suo compito fondamentale risulta quello di proporre a tutti di vivere l’esistenza umana come l’ha vissuta Gesù. Nelle situazioni plurireligiose ed in quelle secolarizzate occorre trovare vie inedite per far conoscere, specialmente ai giovani, la figura di Gesù, affinché ne percepiscano il perenne fascino».[1][2]

Perciò, in occasione del centenario della morte di Don Michele Rua, fedelissimo a Don Bosco e al suo carisma, vorrei invitare tutti i membri della Famiglia Salesiana a diventare sempre più discepoli innamorati e apostoli entusiasti di Gesù e ad impegnarsi nell’evangelizzazione dei giovani. Parliamo loro di Cristo, raccontiamo il nostro incontro con Lui, narriamo la sua storia, senza la quale la sua figura rischia di scivolare nella mitologia o nell’ideologia, presentiamo loro il programma di felicità che Egli ci offre nelle Beatitudini, diciamo loro quanto sia bella la vita una volta che Lo si sia incontrato e quanto gioioso sia l’essere afferrati da Lui e coinvolti nella causa del Regno di Dio.

L’impegno evangelizzatore è frutto dell’identità del discepolo che, dopo essersi messo al seguito del Signore Gesù, diventa suo rappresentante personale e ardente missionario. Vogliamo assumere la sfida di aiutare i giovani a «guardare gli altri non più soltanto con i propri occhi e con i propri sentimenti, ma secondo la prospettiva di Gesù Cristo».[1][3] È vero, noi siamo salesiani e, come tali, realizziamo la nostra missione di evangelizzare educando e di educare evangelizzando. Questo non è uno slogan, né una espressione vuota di senso. Essa esprime lo stretto vincolo che esiste tra evangelizzazione ed educazione; senza confondersi e nel rispetto della loro autonomia, esse sono a servizio della costruzione della persona umana per portarla fino alla pienezza di Cristo. L’educazione è autentica quando è rispettosa di tutte le dimensioni del bambino, dell’adolescente, del giovane, ed è chiaramente orientata alla formazione integrale della persona, aprendola alla trascendenza. L’evangelizzazione dal canto suo ha in se stessa una forte valenza educativa, appunto perché cerca la trasformazione della mente e del cuore, la creazione di una nuova persona, frutto della sua configurazione a Cristo.

La Strenna del 2010 prende spunto dall’anno paolino appena concluso e dal Sinodo sulla Parola di Dio, ancora in attesa della Esortazione Apostolica post-sinodale del Papa, che ci aiuterà ad annunciare e testimoniare la bellezza dell’incontro con Cristo, Parola di Dio, che vive in mezzo a noi. Durante il Sinodo, al quale ho avuto la grazia di partecipare, ho fatto un intervento sul brano lucano dei discepoli di Emmaus, visto come modello, sia per i contenuti che per i metodi, di evangelizzazione dei giovani; potrà essere utile riprenderlo in mano e meditarlo.

 

Ecco, dunque, il programma spirituale e pastorale per l’anno 2010:

 

«Signore, vogliamo vedere Gesù».

A imitazione di Don Rua,

come discepoli autentici e apostoli appassionati

portiamo il Vangelo ai giovani.

 

Già numerosi gruppi della Famiglia Salesiana si trovano in sintonia con questo impegno. A titolo di esempio vi segnalo due passi dei Capitoli generali degli SDB e delle FMA.

Il Capitolo generale XXVI dei Salesiani è consapevole dell’urgenza di evangelizzare e della centralità della proposta di Gesù Cristo: «Avvertiamo l’evangelizzazione come l’urgenza principale della nostra missione, consapevoli che i giovani hanno diritto a sentirsi annunciare la persona di Gesù come fonte di vita e promessa di felicità nel tempo e nell’eternità»[1][4]. Nostro «compito fondamentale risulta dunque quello di proporre a tutti di vivere l’esistenza umana come l’ha vissuta Gesù. […] Centrale deve essere l’annuncio di Gesù Cristo e del suo Vangelo, insieme con l’appello alla conversione, all’accoglienza della fede e all’inserimento nella Chiesa; da qui poi nascono i cammini di fede e di catechesi, la vita liturgica, la testimonianza della carità operosa».[1][5]

Il Capitolo generale XXII delle Figlie di Maria Ausiliatrice riconosce poi che è l’amore di Dio che ci spinge: «Il cenacolo, il luogo dove gli apostoli si trovano tutti insieme, non è una dimora stabile, ma una base di lancio. Lo Spirito li trasforma da uomini paurosi in ardenti missionari che, pieni di coraggio, portano per le vie del mondo il lieto annuncio di Gesù Risorto. L’amore spinge all’esodo e ad uscire da sé verso le nuove frontiere per farsi dono: “l’amore cresce attraverso l’amore”.[1][6] Maria, che dal cenacolo insegna a spalancare le porte, è stata la prima a vivere l’esperienza dell’esodo e a mettersi in viaggio. La prima evangelizzata è diventata la prima evangelizzatrice. Portando Gesù agli altri, Ella offre il suo servizio, reca gioia, fa sperimentare l’amore».[1][7]

 

 

2.   Essere discepoli e apostoli: la nostra vocazione

 

Essere discepoli che accolgono cordialmente la Parola di Dio ed apostoli che la trasmettono gioiosamente è la vocazione di ogni cristiano. Proprio in ciò consiste la vita e la missione della Chiesa. Gesù stesso cominciò annunciando il Vangelo del Regno di Dio e chiamando discepoli per inviarli a predicare. Non solo i Dodici, ma tutti i battezzati sono chiamati ad essere discepoli, che si familiarizzano con la Parola, si identificano con il Signore fino ad avere i Suoi sentimenti, hanno la mente di Cristo, vivono in intimità con Lui, fino a diventare apostoli convinti e zelanti, inviati in tutti gli ambienti di vita a rendere testimonianza della fede, a dare ragione della speranza, a collaborare nella trasformazione della cultura e della società, a costruire un mondo dove regni la giustizia e la pace, a essere coscienza di solidarietà tra i popoli e i gruppi sociali e di fraternità tra tutte le persone.

Nessun cristiano si può sottrarre a questa vocazione e missione. Tutti – non solo i sacerdoti, i missionari o i religiosi – mossi dall’amore che il Signore ha per noi e in virtù del Battesimo, siamo chiamati ad essere evangelizzatori. Possiamo rispondere a questo mandato del Signore nella famiglia, nel lavoro, nelle nostre comunità, con le opere e le parole, cioè con l’amore che mettiamo nelle azioni e nelle parole, badando che siano secondo il Vangelo. Evangelizzare significa immettere un lievito con una energia tale da cambiare la mentalità e il cuore delle persone e, attraverso esse, le strutture sociali, in modo che siano più consone al disegno di Dio. Non si tratta di un’attività intimista; evangelizzare è sprigionare la vera rivoluzione sociale, la più profonda, l’unica efficace. Ciò spiega perché essa trovi tante resistenze e contrasti, aperti od occulti.

Prima di pensare ai mezzi e ai modi di evangelizzare è necessario avere un motivo, essere cioè “innamorati” di Dio, aver fatto esperienza della sua amicizia e della sua intimità: «non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15, 15). Tra il momento della chiamata e quello dell’invio si colloca il tempo in cui i discepoli «stanno» con il Signore per apprendere il suo stile di vita, per imparare a leggere la storia personale e universale come storia di salvezza, per sperimentare nella propria vita la verità, la bontà e la bellezza del messaggio che viene loro affidato e che sono chiamati a proclamare.

A tale riguardo, così dicevo nel saluto di apertura dell’Assemblea semestrale della Unione dei Superiori Generali, in preparazione al Sinodo sulla “Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”: «Solo il ministro del vangelo – consacrato o laico – che abbia nel suo cuore il vangelo, fatto oggetto di contemplazione e motivo di preghiera, riuscirà a mantenerlo sulla sua bocca come tesoro di cui parlare e lo avrà nelle sue mani come un dovere ineludibile da consegnare».[1][8]

Nel bel compito di accogliere, incarnare e comunicare la Parola di Dio, Maria ci è madre e maestra, perché – come dice Sant’Agostino – Ella concepì il Figlio prima nello spirito che nella carne. Difatti nel vangelo di Luca Maria viene presentata come colei che, all’annuncio dell’Angelo, risponde con apertura straordinaria: «Ecco la serva del Signore, si compia in me la sua parola» (Lc 1, 38). Maria è il modello del discepolo che, davanti agli avvenimenti che vede e non riesce a capire, serba tutte quelle cose e le medita nel suo cuore (cfr. Lc 2, 19). All’inizio del ministero di suo Figlio, alle nozze di Cana, invita i servi, a «fare ciò che Egli dirà» (Gv 2, 5), e durante il ministero si trova tra i discepoli che «ascoltano la Parola di Dio e la osservano» (Lc 11, 27-28). Arrivato il momento della passione, Maria è ai piedi della croce, condividendo fino in fondo l’abbandono, il rifiuto e la sofferenza del Figlio e raccogliendo accuratamente il suo testamento: «Donna, ecco il tuo figlio» (Gv 19, 25-27). E finalmente, dopo la risurrezione, persevera in preghiera con i discepoli in attesa dello Spirito Santo promesso (cfr. At 1, 14). Ecco il nostro modello di discepolo ed apostolo della Parola.

 

 

3.   Compito dei discepoli è ascoltare il «desiderio di vedere Gesù»

 

Proprio perché l’evangelizzazione non è soltanto un messaggio da proclamare, ma è la rivelazione di Dio in Gesù, essa è autentica quando porta all’incontro con la persona di Gesù ed è efficace quando comunica la salvezza che Dio ha voluto darci nel Figlio. L’evangelizzazione comporta dunque una dinamica interna, che parte dal sentimento religioso espresso nel desiderio umano di vedere Dio, così espresso dal salmista: «Di te ha detto il mio cuore: cercate il suo volto; il tuo volto, Signore, io cerco» (Sal 26, 8). E uno dei discepoli si azzarderà a domandare a Gesù: «Signore, mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14, 8). Questo ci dice che evangelizzare è un incontro di persone e la persona è evangelizzata appunto quando incontra e accoglie la persona di Gesù.

L’evangelista Giovanni ricorda che alcuni greci, mentre salivano a Gerusalemme per la Pasqua, avvicinarono Filippo con la richiesta di «vedere Gesù» (Gv 12, 21). Non sapendo cosa fare davanti ad una così inaspettata domanda, Filippo ne parlò con Andrea e, insieme, «andarono a dirlo a Gesù». Allora Egli si rese conto che era giunta l’ora, tante volte rimandata, di essere glorificato. Nel momento in cui quelli che erano lontani sentirono il desiderio di vederlo, Gesù riconobbe che era arrivato il tempo di annunciare la consegna di sé alla morte, l’ora della glorificazione, il momento decisivo della salvezza di tutti.

Gesù giunse alla consapevolezza della sua ora, quando seppe che c’erano alcuni greci che volevano vederlo. Egli lo venne a sapere perché due discepoli glielo comunicarono. Senza accorgersene, Filippo e Andrea aiutarono Gesù a far conoscere il momento cruciale della sua vita. Senza quei due discepoli i greci non avrebbero potuto manifestare il desiderio di vedere il Signore; senza di essi Gesù non avrebbe saputo che era arrivato il momento della sua glorificazione. Gesù ebbe bisogno dei discepoli per riconoscere, nel desiderio di essere visto dai lontani, l’avvento dell’ora della sua gloria.

Gesù ha bisogno anche oggi di discepoli che riescano a sentire nel cuore della gente, nelle loro gioie e nelle loro paure, una voglia non sempre espressa di accostarsi a Lui e di incontrarlo. Ciò che di nuovo spinge Gesù a operare la salvezza è sapersi desiderato. Soltanto il discepolo che gli sta vicino può cogliere, tra quanti lo cercano, chi in realtà desidera trovarlo. Il discepolo segue Gesù per facilitare l’incontro con Lui di coloro che Lo vogliono vedere. È così che il discepolo di Gesù diventa suo apostolo: Gesù ha bisogno di discepoli, compagni di vita e di missione, per riconoscere l’arrivo della sua ora. Portando da Lui coloro che vogliono vederlo, il discepolo di Gesù si converte in suo apostolo.

Discernere tra le tante aspirazioni della gioventù d’oggi il vero desiderio di «vedere Gesù» è per noi, membri della Famiglia Salesiana, motivo, se non unico, quanto meno fondamentale per diventare veri discepoli di Cristo. Se noi non lo faremo, chi presenterà a Gesù i sogni e i bisogni dei giovani? Chi farà vedere Gesù ai giovani? I membri della Famiglia Salesiana sono chiamati ad ascoltare l’anelito dei giovani di incontrare Gesù e, nel contempo, a leggere la situazione giovanile in modo da evidenziare il desiderio che i giovani hanno di avvicinare Gesù. Questo è il nostro modo per aiutare oggi Gesù a salvare i giovani. Ed è così che noi diventiamo suoi veri compagni e suoi apostoli.

Ciò significa che l’evangelizzazione dei giovani deve partire dalle situazioni concrete in cui essi si trovano, con un’attenzione particolare alla loro cultura, fortemente segnata dal valore della soggettività e dall’autoreferenzialità, che li porta a raggrupparsi tra coetanei e ad allontanarsi dal mondo dei adulti. A questo proposito sono illuminanti le parole dette dal Santo Padre, Benedetto XVI, nella catechesi del 5 agosto 2009, parlando del santo Curato d’Ars: «Se allora c’era la “dittatura del razionalismo”, all’epoca attuale si registra in molti ambienti una sorta di “dittatura del relativismo”. Entrambe appaiono risposte inadeguate alla giusta domanda dell’uomo di usare a pieno della propria ragione come elemento distintivo e costitutivo della propria identità. Il razionalismo fu inadeguato perché non tenne conto dei limiti umani e pretese di elevare la sola ragione a misura di tutte le cose, trasformandola in una dea; il relativismo contemporaneo mortifica la ragione, perché di fatto arriva ad affermare che l’essere umano non può conoscere nulla con certezza al di là del campo scientifico positivo. Oggi però, come allora, l’uomo “mendicante di significato e compimento” va alla continua ricerca di risposte esaustive alle domande di fondo che non cessa di porsi»[1][9]. Ecco perché i giovani – soprattutto loro – hanno un bisogno, non sempre sentito o espresso, di guide pazienti e comprensive.

Per ciò che riguarda il riferimento religioso in genere, e il riferimento cristiano in particolare, i dati sui giovani non lasciano spazio a dubbi. Lontananza, abbandono prematuro e irrilevanza segnano il rapporto di tanta gioventù con istituzioni, temi e persone religiose. Oggi è sempre più comune imbattersi con giovani che non hanno mai avuto contatto con il fatto religioso, o che l’hanno avuto in modo insufficiente a capire la questione di Dio, o che si sono allontanati dopo un’esperienza iniziale piena di promesse.

Ascoltare il grido, esplicito o implicito, dei giovani che vogliono vedere Gesù comporta nella situazione odierna di uscire verso quegli spazi e temi di vita dove i giovani si trovano come a casa propria, per render loro palese che tra i desideri più autentici di vita e felicità c’è nascosta la domanda di senso e la ricerca di Dio.

Il mio caro predecessore, Don Juan Edmundo Vecchi, aveva trattato questa situazione in modo assai preciso. «Il mondo giovanile è terra di missione per il numero di soggetti che debbono riascoltare il primo annuncio, per le forme di vita e i modelli culturali ai quali non è ancora giunta la luce del vangelo, per il linguaggio verbale, mentale ed esistenziale che non combacia con quello della tradizione».[1][10]

«Va preso atto che Dio interessa i giovani. Ogni ricerca lo conferma. Un’alta percentuale dichiara di sentire in qualche modo bisogno di Dio e di essere convinta della sua esistenza. Non ne consegue però l’obbligo del culto e di una morale coerente, e nemmeno ci si lega alla ‘verità’ che su Dio propone qualcuna delle Chiese.

L’immagine che di Dio hanno i giovani è diversificata, quasi a caleidoscopio. Ma sarebbe affrettato bollarla come falsa. Piuttosto è incompleta e sfuocata, a volte parecchio. Affermatasi una certa diffidenza riguardo alle istituzioni e all’immagine di Dio che esse presentano e dati come scontati alcuni principi di verifica tipici del pensiero attuale, non rimangono criteri per valutare obiettivamente la validità delle diverse rappresentazioni di Dio.

Nell’assumerne qualcuna, prevale dunque la scelta soggettiva. Non è totalmente male: la fede è un atto libero della volontà, mossa dalla grazia e illuminata dalla ragione. Ma certamente risultano immagini sbilanciate. Dio ne risulta un oggetto, un’immagine, un interlocutore, un rapporto e una scoperta a misura del singolo. Ne deriva una concezione notevolmente vaga di Dio stesso […]

Ci sono giovani nei quali l’immagine di un Dio personale è quasi scomparsa. E così pure qualsiasi interrogativo su Dio. Immagini e interrogativi rimangono tra le pieghe della coscienza, come in un angolo di essa non più visitato.

In questo contesto, più paragonabile a una piazza che a una chiesa, si pone la domanda su quando e come parlare di Dio, verso quale immagine di lui orientare esperienze e messaggi. È chiaro che come Dio si è rivelato attraverso fatti e parole, anche il nostro parlare avviene mediante fatti e parole, avvenimenti e illuminazioni».[1][11]

 

 

4.   Prima discepoli, poi apostoli

 

Per far vedere Gesù ai giovani c’è bisogno di conoscerlo, di vivere con lui, d’essere dei suoi. Detto con altre parole, non si può essere testimoni ed apostoli di Gesù, se prima non si è suoi discepoli. Apostolo, infatti, non diventa chi vuole esserlo, ma chi è chiamato. Filippo, Andrea e gli altri membri del primo gruppo apostolico furono chiamati da Gesù, uno ad uno, per nome, scelti tra una moltitudine: «andarono da lui quelli che egli volle», dodici, «perché stessero con lui  e per mandarli a predicare» (Mc 3, 13-14). E per andare da Gesù dovettero allontanarsi dalla gente che Lo seguiva e seguire Lui. Chi è stato invitato a stare con Gesù e a predicare nel suo nome non appartiene al gruppo di chi lo cerca; fa parte di coloro che già Lo hanno incontrato e hanno deciso di restare con Lui.

Il primo mandato che riceve l’apostolo, l’iniziale invito rivolto da chi lo ha chiamato, è lo «stare» con il suo Signore. Nell’apostolato la convivenza precede l’invio; la compagnia viene prima della predicazione; la fedeltà personale è premessa alla missione. Saranno inviati da Gesù, infatti, quelli che hanno vissuto insieme a Lui, condividendo il cammino e il riposo, il pane e i sogni, i successi e le delusioni, la vita e i progetti. Prima che il vangelo occupi la loro mente e sia causa delle loro fatiche, dovrà essere stato accolto nel loro cuore ed essere causa della loro gioia. Gesù non affida il suo vangelo a chi non gli ha dato la propria vita (cfr. At 1, 21-22). I primi inviati da Gesù furono i suoi primi compagni.

Per il fatto che erano con Lui, la gente che voleva conoscere Gesù avvicinava i discepoli; il desiderio di trovare Gesù portava la folla a cercare chi Lo seguiva. Solo il discepolo che vive con Gesù, può facilitare l’accesso a Lui da parte di chi lo desidera. Da qui il bisogno urgente che sentono i giovani di incontrare discepoli di Cristo che li portino a Lui, appunto perché sempre stanno con Lui. Solo dei discepoli autentici possono essere degli apostoli credibili.

Nell’anno appena trascorso, la figura di Paolo ci ha aiutati a comprendere che prima del “vangelo della grazia” annunciato a tutti, viene l’esperienza dell’incontro con il Risorto: Paolo riuscì a predicare il vangelo di Dio, e in modo tutto nuovo, perché gli era stato rivelato il Risorto (cfr. Gal 1, 15-16) sulla via di Damasco. Da questa esperienza nasce il programma di vita di Paolo «Per me vivere è Cristo» ed il suo progetto pastorale «Guai a me se non evangelizzerò» (1 Cor 9, 16). Se “Cristo è tutto per noi” e se “nulla anteponiamo all’amore di Cristo”, la nostra vita diventa allora testimonianza gioiosa e proposta a tutti dell’incontro con Lui.

 

 

5.   Per far «vedere Gesù» ai giovani

 

Trovare Gesù non significa, immediatamente, incontrarlo. Non sempre l’aver ‘trovato’ Gesù, in un’esperienza religiosa forte che suscita una grande gioia ed entusiasmo, porta alla fede, ad un autentico incontro con il Signore, perché come nella parabola del seme (cfr. Mc 4), il terreno in cui esso cade non è preparato.

Nell’incontro l’iniziativa è di Gesù. «Egli si fa avanti e cerca l’incontro. Entra in una casa, si avvicina al pozzo, dove una donna va ad attingere acqua, si ferma davanti a un esattore, volge lo sguardo verso chi si è arrampicato su un albero, si aggiunge a chi sta percorrendo un cammino. Dalle sue parole, dai suoi gesti e dalla sua persona sprigiona un fascino che avvolge il suo interlocutore. È ammirazione, amore, fiducia e attrazione.

Per molti il primo incontro si trasformerà in desiderio di ascoltarlo ancora, di fare amicizia con lui, di seguirlo. Si siederanno attorno a lui per interrogarlo, lo aiuteranno nella sua missione, gli chiederanno di insegnare loro a pregare, saranno testimoni delle sue ore felici e dolorose. In altri casi l’incontro finisce con un invito a un cambio di vita».[1][12] Tale è la testimonianza unanime dei quattro evangeli.

L’esperienza non è diversa quando si pensa all’incontro di Gesù con i giovani. Per ciascuno di loro l’evento più dirompente accade nel momento in cui Gesù appare come colui da cui attingere un senso per la vita, al quale rivolgersi in cerca di verità, attraverso il quale capire il rapporto con Dio e con cui interpretare la condizione umana. La cosa più importante è passare dall’ammirazione alla conoscenza, e dalla conoscenza all’intimità, all’innamoramento, alla sequela, alla imitazione.

Fatto sta che non si può “vedere Gesù”, se Lui non “si lascia vedere”. Non viene a me, ha detto Lui, se non chi mi è stato dato dal Padre mio (cfr. Gv 6, 44). Non basta, dunque, il desiderio di incontrarlo per arrivare alla gioia del riconoscimento; né basta trovare i suoi discepoli per incontrare Gesù e riconoscerlo come Signore.

Il racconto di Emmaus, modello esemplare di incontro del credente con la stessa Parola incarnata (cfr. Lc 24, 13-15), identifica il traguardo, cui deve arrivare il credente, e disegna la strada per arrivarci. L’episodio illustra il cammino della fede e ne descrive le tappe sempre attuali. Il racconto lucano ci offre un preciso itinerario di evangelizzazione, in cui si descrive chi è che evangelizza e come si evangelizza: è Gesù che evangelizza per mezzo della sua parola e del dono eucaristico di sé, camminando insieme ai discepoli.

 

 

5.1.           Meta dell’evangelizzazione: incontrare Cristo nella Chiesa

 

Il racconto si apre narrando l’allontanamento da Gerusalemme di due discepoli di Gesù. Desolati per quanto è accaduto ormai da tre giorni, abbandonano la comunità, nella quale però ci sono alcuni che hanno cominciato a dire che il Signore è stato visto vivo; i due discepoli non possono credere a dicerie di donne (cfr. Lc 24, 22-23; Mc 16, 11). Soltanto alla fine del viaggio, quando vedranno Gesù ripetere il gesto di spezzare il pane, lo riconosceranno, per perderlo subito di vista e ritornare in comunità. La conclusione, inaspettata, del viaggio ad Emmaus fu il ritrovarsi con la comunità a Gerusalemme. Il Risorto non restò con loro ed essi non poterono restare da soli: fecero ritorno alla comunità, dove reincontrarono il Cristo nella testimonianza degli Apostoli: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone» (Lc 24, 34). Questo è un criterio di verifica di un incontro autentico con Cristo: il dono della comunità, che viene riscoperta come la propria casa, abitata dal Signore, il focolare a cui appartengono tutti quanti hanno visto il Signore.

Riscoprire la comunità e ritrovarsi nella Chiesa, luogo per vivere la fede comune, è la logica conseguenza dell’incontro personale col Risorto. Fuori dalla comunità l’annunzio del vangelo sembra rumore da non crederci (cfr. Lc 24, 22-23). Oggi, come ieri o più che ieri, dobbiamo fare i conti con gli ostacoli che incontra l’evangelizzazione. Il primo è la disinformazione, perché di Gesù non soltanto si parla poco, ma si cerca di farlo sparire dalla cultura odierna, dalla organizzazione sociale, dalla coscienza personale. La sua presenza è sentita come irrilevante nella società e la sua assenza viene vista come un vantaggio. Il secondo ostacolo è la visione soggettivistica di Gesù che, privato dalla sua reale storicità, diventa sempre un Cristo a misura nostra, immaginato secondo i propri desideri o bisogni. Il terzo ostacolo è più raffinato: in un preteso dialogo interreligioso si vorrebbe ridurre Cristo a uno tra altri maestri di spirito o fondatori di religioni, sì da non riconoscerlo più l’unico Salvatore di tutti. Infine, c’è il rischio non immaginario, anzi molto comune tra gli stessi cristiani, di considerare talmente conosciuto il Cristo che non ha più niente di nuovo da dirci; divenuto insignificante, non vale più la pena averlo come guida e Signore.

Il racconto lucano dei discepoli di Emmaus ci dice che se il Risorto non avesse fatto comunità con loro, durante il viaggio e a tavola, i due discepoli non sarebbero arrivati a scoprirlo vivo, né avrebbero recuperato la voglia di vivere insieme. Notiamolo bene: non importa se colui che torna in comunità l’aveva prima abbandonata; è però decisivo che si torni quanto prima, subito dopo aver visto il Signore. Solo chi recupera la vita comune, sa che il Risorto è stato con lui e trova la gioia di averlo sentito accanto (cfr. Lc 24, 35.32).

Si deve temere una evangelizzazione che, al di là dei metodi e delle intenzioni, non parta da una vita in comune degli evangelizzatori e che non nasca dalla loro gioia di aver incontrato Cristo nella comunità. Se così fosse, tale evangelizzazione non sarebbe nata dall’incontro col Risorto, né porterebbe all’incontrarsi con Lui. Quelli che videro il Risorto e mangiarono con Lui non poterono trattenerlo con loro, ma trovarono la voglia di raccontare l’esperienza vissuta, ritornando alla loro comunità. Ciò non è casuale, ma prova una legge dell’esistenza cristiana: chi sa e proclama che Gesù è Risorto, vive in comune la sua esperienza.

Anche se è vero che Gesù si può incontrare in qualsiasi posto, la sua casa, il luogo dove abita, è la Chiesa, la comunità dei credenti, di coloro cioè che Lo confessano come loro Signore, la famiglia dei suoi discepoli, di coloro che condividono con Lui vita e missione.

Non c’è dubbio che dobbiamo darci da fare per correggere l’immagine deformata che può esserci della Chiesa in tanti giovani. Alcuni «ne parlano con affetto quasi fosse la propria famiglia, anzi la propria madre. Sanno che in essa e da essa hanno ricevuto la vita spirituale. Anche se ne conoscono limiti, rughe e persino scandali, ciò tuttavia appare secondario di fronte ai beni che essa porta alla persona e all’umanità in quanto dimora di Cristo e punto di irradiazione della sua luce: le energie di bene che si manifestano in opere e persone, l’esperienza di Dio mossa dallo Spirito che appare nella santità, la saggezza che ci viene dalla Parola di Dio, l’amore che unisce e crea solidarietà oltre i confini nazionali e continentali, la prospettiva della vita eterna.

Altri ne trattano con distacco, quasi fosse una realtà che a loro non appartiene e di cui non si sentono parte. La giudicano dall’esterno. Quando dicono ‘la Chiesa’, sembrano riferirsi soltanto ad alcune delle sue istituzioni, a qualche formulazione della fede o a norme di morale che non vanno loro a genio. È l’impressione che si ricava nella lettura di alcuni giornali. […] Si sbagliano proprio in quello che costituisce la Chiesa: il suo rapporto, anzi la sua identificazione con Cristo. Per molti, questa è una verità non conosciuta o praticamente dimenticata. Non manca chi la interpreta come una pretesa della Chiesa per monopolizzare la figura di Cristo, controllarne le interpretazioni e gestire il patrimonio di immagine, di verità, di fascino che Cristo rappresenta.

Per il credente invece questo è il punto fondamentale: la Chiesa è continuazione, dimora, presenza attuale di Cristo, luogo dove egli dispensa la grazia, la verità e la vita nello Spirito. […] È proprio così. La Chiesa vive della memoria di Gesù, rimedita e studia con tutti i mezzi la sua parola estraendone nuovi significati, riattualizza la sua presenza nelle celebrazioni, cerca di proiettare la luce, che si sprigiona dal suo mistero, sugli avvenimenti e sulle concezioni di vita attuali e assume e porta avanti la missione di Cristo nella sua totalità: annuncio del Regno e trasformazione delle condizioni di vita meno umane. Soprattutto Gesù ne è il capo che attira i singoli, li unisce in un corpo visibile e infonde energie nelle comunità».[1][13]

Se questa è la vera realtà della Chiesa, abbiamo il compito di far sì che i giovani la amino come madre della loro fede, che li cresce come figli di Dio, che fa loro trovare la vocazione e missione, che li accompagna lungo il percorso della vita e che li attende per introdurli nella casa del Padre. Questo è ciò che Don Bosco seppe fare in modo incomparabile nell’educazione ed evangelizzazione dei suoi ragazzi a Valdocco. Vediamo che cosa possiamo fare noi oggi nei confronti dei giovani che vogliono vedere Gesù.

 

 

5.2.           Metodo dell’evangelizzazione: camminare insieme

 

La ragione per cui probabilmente l’episodio di Emmaus risulta così attuale, sta nella sua contemporaneità con la nostra situazione spirituale. È facile sentirsi identificati con questi discepoli che tornano a casa, prima del tramonto del sole, carichi di conoscenze e di tristezza. Nell’avventura dei due discepoli di Emmaus troviamo le tappe decisive da percorrere per rifare, nell’educazione alla fede dei giovani, l’esperienza pasquale che accompagna la nascita della vita in comunità e della testimonianza apostolica.

 

Punto di partenza: andare da Gesù con le proprie delusioni

 

Non ciò che era accaduto a Gerusalemme “in quei giorni”, ma l’intima frustrazione personale fu il punto di partenza del viaggio verso Emmaus. Avevano vissuto assieme a Gesù e la convivenza aveva svegliato in loro le migliori speranze: sembrava che «fosse lui che avrebbe liberato Israele» (Lc 24, 19.21). Invece, la sua morte in croce aveva sepolto tutte le loro aspettative e la loro fede. Era più che logico che provassero il fallimento, che sentissero, delusi, di essere stati ingannati. Oggi i giovani condividono poche cose con questi discepoli; ma forse nessuna hanno tanto in comune quanto la frustrazione dei loro sogni, la stanchezza nella vita e il disincanto nel discepolato. Seguire Gesù, pensano sovente, non merita, non vale la pena: un assente non ha valore per la loro vita.

È l’ora di andare verso Emmaus. Nel cammino, con le loro angosce, c’è pure l’opportunità di un incontro con Gesù. Non si deve però andare da soli. I giovani hanno bisogno di una Chiesa, che rappresentando Gesù si avvicini ai loro problemi e al loro sconforto, che non solo condivida con essi il cammino e la fatica, ma anche sappia conversare con loro, collocandosi al loro livello, interessandosi per quello che li preoccupa, assumendo le loro incertezze. Come potrà la Famiglia Salesiana rappresentare il Signore risorto, se non si occupa di loro, se non si interroga sulle loro “gioie e speranze”, sulle loro “tristezze ed angosce”, insomma se non si mostra preoccupata per le loro cose e la loro vita?

 

Durante il cammino: dal sapere tante cose su Gesù al lasciarlo parlare

 

Sulla strada, soltanto lo sconosciuto sembrava non avesse alcuna idea dell’accaduto in Gerusalemme (cfr. Lc 24, 17-24). Il conoscere tante cose su Gesù non portò i discepoli a riconoscerlo; conoscevano il kerygma, ma non erano arrivati alla fede; sapevano tanto su di lui, ma non erano capaci di vederlo; avevano tante notizie su di un morto, sì da non riuscire a vederlo vivo. Lo sconosciuto dovette impegnarsi a fondo per far loro comprendere l’accaduto sotto la luce di Dio. Gesù si mise a rileggere con loro la sua vita presentandola come compimento delle promesse. Per poterlo riconoscere, dovettero lasciarlo parlare.

Come Cristo, la Famiglia Salesiana deve rinunciare ad alimentare nei giovani speranze inconsistenti, false aspettative; deve invece insegnare a sopportare quel che accade in loro e attorno a loro, aiutandoli a rileggere gli eventi alla luce di Dio, secondo la sua Parola. Se non li portiamo alla convinzione che tutto ciò che accade è parte di un progetto divino, frutto e prova di un colossale amore, come riusciranno i giovani a sentirsi amati da Dio? Per riuscirci, dobbiamo diventare loro compagni nella ricerca del senso della vita e nella ricerca di Dio. Ecco qui un percorso, ancora poco utilizzato nella Chiesa, molto urgente per i giovani: senza conoscere le Scritture, non si conosce il Cristo.[1][14]

 

Tappa decisiva: accogliere Gesù in casa propria

 

Giunti ad Emmaus, i discepoli non erano ancora arrivati alla conoscenza personale di Gesù, non avevano identificato il Risorto nello sconosciuto accompagnatore. In realtà, Emmaus non fu la meta del viaggio, ma una tappa decisiva. Invitato a restare, ancora sconosciuto, Gesù ripete il suo gesto senza dire parola. La prassi eucaristica è tra i credenti segno della sua reale presenza. I due di Emmaus non riconobbero il Signore quando assieme a lui facevano strada e da lui imparavano a capire il senso degli avvenimenti. Quello che Gesù non riuscì a fare con l’accompagnamento, con la conversazione, con l’interpretazione della Parola di Dio, si compì con il gesto eucaristico.

Gli occhi per contemplare il Risorto si aprono dove Egli ripete il gesto che meglio Lo identifica (cfr. Lc 24, 30-31). Quando si spezza il pane in comunità, Gesù esce dall’anonimato. «Non si edifica comunità cristiana alcuna, se non ha come radice e cardine la celebrazione dell’Eucaristia»[1][15]. Un’educazione alla fede che dimentichi o rimandi l’incontro sacramentale dei giovani con Cristo, non è la via per trovarlo. L’Eucaristia è e deve rimanere «fonte e culmine dell’evangelizzazione»[1][16]; è «la fonte e l’apice di tutta la vita cristiana»[1][17].

«I giovani, come noi, trovano Gesù nella comunità ecclesiale. Nella vita di questa però ci sono momenti nei quali egli si rivela e si comunica in modo singolare: sono i sacramenti, in particolare la Riconciliazione e l’Eucaristia. Senza l’esperienza che sta in essi, la conoscenza di Gesù risulta inadeguata e scarsa, fino al punto di non consentire di distinguerlo tra gli uomini come il risorto Salvatore.

Infatti c’è chi, pur condividendo la vita sociale e gli ideali della Chiesa, colloca Gesù soltanto tra i grandi saggi, tra i geni religiosi; forse lo considera come la realizzazione più alta dell’umanità che influisce su di noi per la profondità della sua dottrina e per il suo esempio di vita. Manca però l’esperienza personale del Risorto, del suo potere di dare la vita, della comunione in lui con il Padre.

A ragione si dice che i sacramenti sono memoria vera di Gesù: di quello che egli compì e opera ancora oggi per noi, di quello che significa per la nostra vita; riaccendono quindi la nostra fede in lui, per cui lo vediamo meglio nella nostra esistenza e negli avvenimenti.

Sono pure rivelazione di quello che sembra nascosto nelle pieghe della nostra esistenza, per cui ne prendiamo coscienza: nella Riconciliazione scopriamo la bontà di Dio all’origine e come tessuto della nostra vita; alla sua luce ne valutiamo il suo decorrere e cerchiamo di costruirla in un modo nuovo. Sono energia, grazia trasformante perché comunicano la vita di Cristo risorto e ci innestano in essa; ci danno consapevolezza, non teorica ma vissuta, della sua portata, dimensioni e possibilità.

Sono profezia, pegno di una promessa di comunione e felicità che ci è stata fatta e a cui ci affidiamo. Nella Riconciliazione ci si aprono gli occhi e vediamo quello che possiamo diventare secondo il progetto e il desiderio di Dio; ci viene ridato lo Spirito che ci purifica e rinnova. Si è detto che è il sacramento del nostro futuro di figli, anziché del nostro passato di peccatori. Nell’Eucaristia Cristo ci incorpora alla sua offerta al Padre e rafforza la nostra donazione agli uomini. Ci ispira il desiderio e ci dà la speranza che entrambi, amore al Padre e amore ai fratelli, divengano una grazia per tutti e per tutto: annunziamo la sua morte, proclamiamo la sua risurrezione, vieni Signore Gesù».[1][18]

 

 

5.3.           Motivazione dell’evangelizzazione

 

L’urgenza di evangelizzare non è proselitismo, ma esprime la passione per la salvezza degli altri, la gioia di condividere l’esperienza di pienezza di vita in Gesù. Chi ha incontrato il Signore non può stare in silenzio: Lo deve proclamare. Restare zitti sarebbe darLo di nuovo per morto; e Lui vive! Il senso missionario incarna il comando che Gesù rivolge ai discepoli: «mi sarete testimoni fino agli estremi confini della terra» (At 1, 8).

Don Bosco fece  proprio questo appello di Gesù sin dall’inizio della sua opera, portando il vangelo ai giovani più poveri. Parlando della Congregazione egli dice: “questa Società nel suo principio era un semplice catechismo”.[1][19] E già all’indomani dell’approvazione delle Costituzioni (1874), l’11 novembre 1875, inviò la prima spedizione missionaria in America Latina. Come Famiglia Salesiana siamo invitati a metterci in sintonia con quella che è stata l’ispirazione originaria di Don Bosco: la dimensione evangelizzatrice e missionaria della sua vita, ma anche del suo carisma. Tutto questo rappresenta un punto fondamentale del testamento spirituale che egli ci ha lasciato.

La missionarietà è particolarmente viva oggi, perché il mondo è tornato ad essere “terra di missione”. D’altra parte, oggi c’è una maniera diversa di concepire la missionarietà, di realizzare la “missio ad gentes”. Essa si attua nel rispetto dei diversi ambienti culturali, in dialogo con le altre confessioni cristiane e le diverse religioni, e ci impegna nella promozione umana e nella lievitazione della cultura.[1][20] Ciò non ci esime però dall’essere missionari, anzi ci impegna in modo ancor più forte.

 

 

5.4.           Ripensamento della pastorale

Se vogliamo evangelizzare oggi, oltre a dare priorità alle urgenze della evangelizzazione, dobbiamo rinnovare la pastorale. Ecco dunque alcune attenzioni al riguardo.

 

Centralità della persona di Gesù Cristo

 

L’evangelizzazione non ha il Signore Gesù soltanto come suo contenuto; Egli è il suo soggetto principale. Gesù Cristo infatti non propone un messaggio che sia separabile dalla sua persona, così che le sue parole, le sue azioni, la sua vicenda terrena possano essere ridotte a semplici strumenti comunicativi. Egli stesso è il contenuto del suo annuncio, perché Egli è la Parola viva ed efficace, in cui Dio si comunica agli uomini. La sorgente di tutta l’opera di evangelizzazione sta nell’incontro personale con Cristo. Non si tratta, ovviamente, di una semplice esortazione parenetica, ma di una chiara indicazione veritativa, che ha conseguenze molto rilevanti. Tra queste segnalo innanzitutto l’esigenza di superare la spaccatura tra contenuto e metodo dell’evangelizzazione, e in secondo luogo, l’urgenza di mantenere l’equilibrio tra il partire dalle domande dei destinatari e il presentare loro solo e tutto Cristo. Questo ci chiede di verificare se i nostri metodi pastorali sono coerenti con la centralità della proposta di Gesù Cristo. Una metodologia che pone esclusivamente al centro l’ascoltatore della Parola vanifica l’efficacia della Parola stessa.

 

Testimonianza della comunità evangelizzata ed evangelizzatrice

 

La testimonianza è elemento cardine dell’azione pastorale. La priorità della testimonianza deriva coerentemente dalla centralità della persona di Gesù Cristo nell’azione evangelizzatrice. Tale azione non nasce primariamente da bisogni umani cui dare risposta, ma dall’incontro con un mistero personale di grazia cui rendere testimonianza; essa perciò non si dispiega a partire da un vuoto o da una carenza, ma a partire da una pienezza di amore che si irradia e si partecipa. Proprio per questo, al centro dell’azione evangelizzatrice vi è la presenza testimoniale di una comunità che interpella le coscienze con il suo modo di vivere e non vi sta semplicemente un progetto pastorale intorno a cui raccogliere forze più o meno omogenee. Perciò assume un particolare rilievo la figura dell’evangelizzatore, che è prima di tutto un discepolo credente e poi un apostolo credibile, anzi un apostolo credibile proprio perché già discepolo credente.

 

Evangelizzazione ed educazione

 

Nella Famiglia Salesiana è sentita l’esigenza di ripensare il rapporto tra evangelizzazione ed educazione, superando l’inerzia ripetitiva di formule generiche. Così afferma al riguardo il Capitolo generale XXVI dei Salesiani: «Nella tradizione salesiana abbiamo espresso tale rapporto in modi diversi: ad esempio “onesti cittadini e buoni cristiani” oppure “evangelizzare educando ed educare evangelizzando”. Avvertiamo la necessità di proseguire la riflessione su questo delicato rapporto. In ogni caso siamo convinti che l’evangelizzazione propone all’educazione un modello di umanità pienamente riuscita e che l’educazione, quando giunge a toccare il cuore dei giovani e sviluppa il senso religioso della vita, favorisce e accompagna l’evangelizzazione».[1][21] Lo sviluppo di questo lavoro trova un punto di riferimento nella nitida affermazione dello stesso testo capitolare, secondo cui occorre «salvaguardare insieme l’integralità dell’annuncio e la gradualità della proposta»,[1][22] senza cedere alla tentazione di trasformare la gradualità dei percorsi pedagogici in parzialità selettiva della proposta o nel ritardo dell’annuncio esplicito di Gesù Cristo, impossibilitando così l’incontro personale con il Signore.

 

Evangelizzazione nei diversi contesti

 

L’evangelizzazione richiede pure di avere attenzione ai diversi contesti. L’urgenza di portare l’annuncio del Signore Risorto ci spinge a confrontarci con situazioni che risuonano in noi come appello e preoccupazione: i popoli non ancora evangelizzati, il secolarismo che minaccia terre di antica tradizione cristiana, il fenomeno delle migrazioni, le nuove drammatiche forme di povertà e di violenza, la diffusione di movimenti e sette. Ogni contesto presenta le sue proprie sfide all’annuncio del vangelo. Ci sentiamo interpellati anche da alcune opportunità, quali il dialogo ecumenico, interreligioso e interculturale, la nuova sensibilità per la pace, per la tutela dei diritti umani e per la custodia del creato, le tante espressioni di solidarietà e di volontariato. Questi elementi, riconosciuti dalle Esortazioni Apostoliche a seguito dei Sinodi continentali, ci impegnano a trovare nuove vie per comunicare il Vangelo di Gesù Cristo nel rispetto e nella valorizzazione delle culture locali.

 

Attenzione alla famiglia

 

Una particolare attenzione va riservata alla famiglia che è il soggetto originario dell’educazione e il primo luogo dell’evangelizzazione. La Chiesa ha preso coscienza delle gravi difficoltà nelle quali la famiglia si trova e avverte la necessità di offrire aiuti straordinari per la sua formazione, il suo sviluppo e l’esercizio responsabile del suo compito educativo. Per questo anche noi siamo chiamati a fare in modo che la pastorale giovanile sia sempre più aperta alla pastorale familiare. Cosi diceva il Papa Benedetto a noi Salesiani durante il Capitolo generale XXVI: «Nell’educazione dei giovani è estremamente importante che la famiglia sia un soggetto attivo. Essa è spesse volte in difficoltà nell’affrontare le sfide dell’educazione; tante volte è incapace di offrire il suo specifico apporto, oppure è assente. La predilezione e l’impegno a favore dei giovani, che sono caratteristica del carisma di Don Bosco, devono tradursi in un pari impegno per il coinvolgimento e la formazione delle famiglie. La vostra pastorale giovanile quindi deve aprirsi decisamente alla pastorale familiare. Curare le famiglie non è sottrarre forze al lavoro per i giovani, anzi è renderlo più duraturo e più efficace».[1][23]

 

 

5.5.           Processi da attivare per il cambiamento

 

Per affrontare le esigenze dell’evangelizzazione e per realizzare un ripensamento della pastorale giovanile, è necessario convertire mentalità, modificare strutture e attivare alcuni processi di cambiamento. Occorre passare:

          da una mentalità che privilegia i ruoli di gestione diretta ad una mentalità che privilegia la presenza evangelizzatrice tra i giovani;

          da un’evangelizzazione fatta di eventi senza continuità ad un itinerario sistematico ed integrale;

          da una mentalità individualistica ad uno stile comunitario che coinvolge giovani, famiglie e laici nell’annuncio di Gesù Cristo;

          da un atteggiamento di autosufficienza pastorale alla condivisione dei progetti delle chiese locali;

          dalla considerazione dell’efficacia della nostra presenza in termini di stima degli altri, alla sua valutazione in termini di fedeltà al Vangelo;

          da un atteggiamento di superiorità culturale ad un’accoglienza positiva delle culture diverse dalla propria;

          dal considerare la Famiglia Salesiana solo come opportunità di incontro, conoscenza e scambio di esperienze, all’impegno di farne un vero movimento apostolico a favore dei giovani.

Sono convinto che «per rispondere da discepoli del Signore Gesù non abbiamo altra alternativa che la vita teologale, un’intensa vita permeata di fede, speranza e carità, vissuta in profondità, e la radicalità della vita evangelica, una vita luminosa tratteggiata dall’obbedienza, dalla povertà e dalla castità. Ecco la nostra profezia! Gesù ci ha ammaestrati e ci ha comunicato il suo Spirito affinché potessimo essere sale della terra, luce del mondo, lievito nella società, chiamati ad illuminare e irradiare, a preservare e insaporire, a far crescere e trasformare.

Tutto questo implica di:

  assumere con creatività ed entusiasmo la nuova evangelizzazione, fino a raggiungere l’anima della cultura, specialmente quella dei giovani, nostri destinatari;

  ricuperare la centralità di Dio nella vita personale e comunitaria, assicurando una misura alta di vita spirituale nella comunità e rendendo leggibile la testimonianza comunitaria della sequela di Cristo;

  scommettere sulla creazione di comunità con genuino spirito di famiglia, ricche di  valori umani e completamente dedite al servizio dei giovani, specie i più poveri, bisognosi, emarginati, fino a farne casa e scuola di comunione;

  risignificare la presenza salesiana tra i giovani, facendo scelte carismatiche che ci permettano di condividere la vita con i giovani, creando una nuova modalità di presenza più decisamente evangelizzatrice, collocandoci dove possiamo essere più fecondi a livello pastorale, spirituale e vocazionale».[1][24]

 

 

6.   Come Don Michele Rua, discepolo e apostolo

 

Chi rilegge la storia della Congregazione salesiana, a 150 anni dalla sua fondazione e a cento anni dalla morte di Don Rua, primo successore di Don Bosco, non può non riconoscere che il nostro carisma è nato dalla stessa missione della Chiesa, che ciò che ci spinge è la passione pastorale che Don Bosco apprese alla scuola del Cafasso, che, in una parola, siamo inviati da Gesù a compiere il suo stesso ministero e la sua stessa opera, ma con il volto sorridente di Don Bosco e con la determinazione di Don Rua.

 

 

6.1 «Fedelissimo»

 

Perciò non posso a questo punto non fare un cenno a don Michele Rua, modello per noi di ciò che significa, da salesiani, essere discepoli e apostoli. La celebrazione del centenario della sua morte ci offre uno stimolo per essere discepoli e apostoli di Gesù sulle orme di Don Bosco, di cui egli è stato il primo successore.

Egli «è stato il fedelissimo, perciò il più umile e insieme il più valoroso figlio di Don Bosco». Con queste parole Paolo VI, il 29 ottobre 1972, giorno della beatificazione, scolpì per sempre la figura umana e spirituale di Don Rua. Ancora il Papa, in quell’omelia[1][25] scandita sotto la Cupola di San Pietro, delineò il nuovo Beato con parole che definirono questa sua fondamentale caratteristica: la fedeltà. «Successore di Don Bosco, cioè continuatore: figlio, discepolo, imitatore … Ha fatto dell’esempio del Santo una scuola, della sua vita una storia, della sua regola uno spirito, della sua santità un tipo, un modello; ha fatto della sorgente, una corrente, un fiume». Le parole di Paolo VI elevavano ad un’altezza superiore la vicenda terrena di questo «esile e consunto profilo di prete»; esse scoprivano il diamante che aveva brillato nella trama mite e umile dei suoi giorni.

Era cominciata un giorno lontano con un gesto strano. Otto anni, orfano di padre, con una fascia nera sulla giacchetta, Michele aveva teso a Don Bosco la mano per avere una medaglietta. Invece della medaglia Don Bosco gli aveva consegnato la mano sinistra, mentre con la destra faceva il gesto di tagliarsela a metà. E gli ripeteva: «Prendila, Michelino, prendila». E davanti a quegli occhi meravigliati, aveva detto le parole che sarebbero state il segreto della sua vita: «Noi due faremo tutto a metà». Cominciò così quel formidabile lavoro insieme tra il Maestro santo e il discepolo che faceva a metà con lui tutto e sempre. Michele cominciava ad assimilare la maniera di pensare e comportarsi di Don Bosco. «Mi faceva più impressione – dirà più tardi – osservare Don Bosco nelle sue azioni anche minute, che leggere e meditare qualsiasi libro devoto».[1][26]

 

6.2 Fedeltà feconda

 

Più di un Cardinale a Roma, alla morte di Don Bosco era persuaso che la Congregazione salesiana si sarebbe rapidamente dissolta; Don Rua aveva 50 anni. Meglio era inviare a Torino un Commissario pontificio che preparasse l’unione dei Salesiani con un’altra Congregazione di provata tradizione. «In gran fretta – testimoniò sotto giuramento don Barberis – mons. Cagliero radunò il Capitolo con alcuni dei più anziani e si stese una lettera al Santo Padre in cui tutti i Superiori e anziani dichiararono che tutti d’accordo avrebbero accettato come Superiore Don Rua, e non solo si sarebbero sottomessi, ma l’avrebbero accettato con gran gioia… L’11 febbraio il S. Padre confermava e dichiarava Don Rua in carica per dodici anni secondo le Costituzioni».[1][27]

Papa Leone XIII aveva conosciuto Don Rua e sapeva che i Salesiani sotto la sua direzione avrebbero continuato la loro missione. E così avvenne. I Salesiani e le opere salesiane si moltiplicarono come i pani e i pesci tra le mani di Gesù. Don Bosco aveva fondato 64 opere; Don Rua le portò a 341. I Salesiani, alla morte di Don Bosco, erano 700; con Don Rua, in 22 anni di direzione generale, divennero 4.000. Le Missioni salesiane, che Don Bosco aveva tenacemente cominciato, si erano estese durante la sua vita alla Patagonia e alla Terra del Fuoco, all’Uruguay e al Brasile; Don Rua moltiplicò lo slancio missionario e i Salesiani missionari raggiunsero la Colombia, l’Ecuador, il Messico, la Cina, l’India, l’Egitto e il Mozambico.

Perché la fedeltà a Don Bosco non diminuisse, Don Rua non ebbe paura a viaggiare in lungo e in largo. Tutta la sua vita fu costellata di viaggi. Egli raggiungeva i suoi Salesiani dovunque fossero, parlava loro di Don Bosco, ridestava in loro il suo spirito, si informava paternamente, ma accuratamente, della vita dei confratelli e delle opere, e lasciava scritti direttive e ammonimenti perché fiorisse la fedeltà a Don Bosco.

 

 

6.3 Fedeltà dinamica

 

Nella stessa omelia di beatificazione Paolo VI affermò: «Meditiamo un istante sopra l’aspetto caratteristico di Don Rua, l’aspetto che ce lo fa capire … La prodigiosa fecondità della Famiglia Salesiana ha avuto in Don Bosco l’origine, in Don Rua la continuità. Questo suo seguace ha servito l’Opera salesiana nella sua virtualità espansiva, l’ha sviluppata con coerenza testuale, ma sempre con geniale novità».

Continua Paolo VI: «Che cosa c’insegna Don Rua? Ad essere dei continuatori… L’imitazione del discepolo non è passività, né servilità … L’educazione è arte che guida l’espansione logica, ma libera e originale delle qualità virtuali dell’allievo … Don Rua si qualifica come il primo continuatore dell’esempio e dell’opera di Don Bosco … Avvertiamo di avere davanti un atleta di attività apostolica, che opera sempre sullo stampo di Don Bosco, ma con dimensioni proprie e crescenti … Noi rendiamo gloria al Signore, che ha voluto … offrire alla sua fatica apostolica nuovi campi di lavoro pastorale, che l’impetuoso e disordinato sviluppo sociale ha aperto davanti alla civiltà cristiana».

A leggere anche solo rapidamente la quantità impressionante delle lettere di don Rua, delle sue circolari, i tomi che riassumono la sua opera di Successore di Don Bosco per 22 anni, si scopre in maniera imponente che ciò che afferma il Papa è vero: la sua fedeltà a Don Bosco non è statica, ma dinamica. Egli avverte davvero il fluire del tempo e delle necessità della gioventù, e senza paura dilata l’opera salesiana a nuovi campi.

 

 

7.   Suggerimenti per la concretizzazione della Strenna

 

Dopo questo cenno alla figura di Don Rua, che tanto sviluppò la Famiglia Salesiana, ecco ora alcuni passi utili per fare in modo che i gruppi della Famiglia Salesiana si impegnino insieme a portare il vangelo ai giovani. Ciò è proposto ai singoli gruppi della Famiglia Salesiana, ma anche alle Consulte locali e ispettoriali della Famiglia Salesiana stessa.

 

7.1. Riflettere nelle Consulte locali ed ispettoriali della Famiglia Salesiana su come assumere quanto indicato nella sezione 5.4, ossia su come realizzare il ripensamento della pastorale, in modo che risultino operative le scelte riguardanti la centralità della proposta di Gesù Cristo, la testimonianza personale e comunitaria, l’apporto reciproco di educazione ed evangelizzazione, l’attenzione alla diversità dei contesti, il coinvolgimento delle famiglie.

 

7.2. Individuare nelle Consulte locali ed ispettoriali, a partire dalla “Carta della missione della Famiglia Salesiana”, le modalità per fare insieme delle esperienze di evangelizzazione dei giovani, promuovendo la “lettura spirituale ed orante della Sacra Scrittura” anche tra di loro e rendendoli sempre più evangelizzatori dei loro compagni.

 

7.3. Suscitare la collaborazione di Famiglia Salesiana, a livello ispettoriale e locale, per realizzare le missioni giovanili, come forma aggiornata di annuncio e catechesi ai giovani, coinvolgendo i giovani stessi come evangelizzatori dei giovani.

 

7.4. Valorizzare le Esortazioni Apostoliche a conclusione dei Sinodi continentali, per individuare le priorità e le forme specifiche del proprio contesto per l’evangelizzazione dei giovani. Nel caso dell’America Latina, aderire alla “Missione continentale” programmata dall’Assemblea dei Vescovi tenutasi ad Aparecida; nel caso della Regione Africa e Madagascar, seguire le indicazioni del Sinodo dei Vescovi dell’ottobre 2009.

 

 

8.   Conclusione

 

Come al solito, concludo la presentazione della Strenna con un racconto, che questa volta ci è offerto dal commento fatto da don Joseph Grünner, Ispettore della Germania, al quadro di «Don Bosco burattinaio», dipinto da Sieger Koeder, parroco emerito della Diocesi di Rottenburg – Stuttgart e amico dei Salesiani. Appena ho visto tale quadro, sono rimasto affascinato dalla rappresentazione così potente e pregnante del nostro caro fondatore e padre.

Si tratta di una vera icona di «Don Bosco evangelizzatore, segno dell’amore di Dio per i giovani». Come tutte le icone l’opera va studiata ed apprezzata nell’insieme, ma anche nei dettagli. Mi auguro che la sua contemplazione stimoli ciascuno di noi ad essere ardenti evangelizzatori dei giovani, convinti che nel Vangelo diamo loro il dono più prezioso: il Cristo, l’unico capace di far loro capire il senso della propria esistenza, di provocarli a fare scelte impegnative di vita e diventare loro stessi apostoli dei giovani.

 

 

Don Bosco evangelizzatore, segno dell’amore di Dio per i giovani

Meditazione sul dipinto di Don Bosco di Sieger Koeder

 

«Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro» (Lc 6, 36)

Potrebbe sorprendere il modo di dipingere Don Bosco come è stato realizzato dall’artista-sacerdote Sieger Koeder. Non lo rappresenta secondo una delle tante fotografie esistenti, ad esempio in mezzo ai suoi ragazzi, oppure come “santo tipico”, ma quel dipinto mostra davvero Don Bosco come era e continua ad essere, ci svela il suo essere più profondo. Così il dipinto diventa pure una bellissima illustrazione di quello che il nostro Padre descrisse, nella sua lettera da Roma del 1884, come centro del suo sistema preventivo.

 

Don Bosco: burattinaio entusiasmante

Al lato destro vediamo Don Bosco, vestito con la talare e stando dietro un velo scuro che gli serve da quinta. Agli occhi degli spettatori la sua figura rimane nascosta, invece essi possono guardare i due pupazzi che tiene in alto. La sua faccia ci fa vedere la sua concentrazione assieme al suo entusiasmo: egli sorride, ed ovviamente è totalmente coinvolto nella sua azione. Sembra che a lui piaccia l’entusiasmo degli spettatori.

 

Don Bosco: educatore ricco d’idee

Egli sa affascinare ragazzi, giovani, adulti, per conquistarli con giochi e divertimenti, con metodi e mezzi semplicissimi, servendosi della parola oppure della stampa, impegnandosi per loro con la sua creatività e la sua grande sensibilità. Si serve di tutto per conquistarli per quella che considera la missione affidatagli dalla Provvidenza. Egli lo fa mettendo al centro “il messaggio”, di cui è solo mediatore e non protagonista.

 

Don Bosco: catechista appassionato

I due pupazzi nelle mani alzate di Don Bosco – l’uno raffigurante il padre, l’altro il figlio tra le braccia del padre – sono un simbolo per il suo progetto di vita: far capire e sperimentare ai giovani poveri ed abbandonati come ai ceti popolari il mistero dell’immenso amore di Dio e della Sua infinita misericordia verso tutti. Il racconto biblico del padre misericordioso, che non ha mai dimenticato nel suo cuore il figlio prodigo, ma che ha sempre sperato e aspettato il suo ritorno (cfr. Lc 15, 11-32), non è solo l’argomento della rappresentazione realizzata con i pupazzi, ma è il tema dominante di tutta la vita di Don Bosco. Il dipinto mostra il punto culminante del racconto biblico: il padre misericordioso, vestito festosamente, abbraccia il figlio prodigo che adesso è tornato, ridandogli la dignità e tutti i diritti che aveva prima ed aprendo così nuove prospettive per la sua vita.

 

Don Bosco: padre misericordioso

Don Bosco non “fa” da padre come attore in uno spettacolo, ma lo diventa e lo è in realtà, prendendo come modello il padre del racconto biblico. Nella parte inferiore del dipinto, al lato destro del telo, Don Bosco è rappresentato in atto di protezione per uno dei suoi ragazzi, e costui guarda attentamente Don Bosco. Quel ragazzo è dipinto con lo stesso colore blu come il pupazzo che rappresenta il figlio prodigo; forse simbolizza il fratello maggiore della parabola, che non è ancora pronto e disposto ad accettare la misericordia del padre. Può darsi, ugualmente, che rappresenti i tanti giovani a cui Don Bosco offrì uno spazio protetto, dove potevano sperimentare sicurezza, carità, amore affettivo ed effettivo, in contrasto a tutto quello che dovevano sperimentare sulle strade e nel carcere.

 

Don Bosco con i suoi giovani

I destinatari di Don Bosco sono bambini e ragazzi, che seguono attentamente ciò che egli fa. Don Bosco, per una seconda volta, è stato rappresentato al lato sinistro del dipinto: stando in mezzo a loro e abbracciandoli affettuosamente, come fa il padre misericordioso nello spettacolo. I ragazzi sono pienamente presi da quello che capita sul palcoscenico, ascoltando il messaggio e nello stesso tempo sperimentando l’effetto: con Don Bosco possono sentirsi a loro agio, accettati così come sono. La carità di Don Bosco è sensibile e diventa esperienza convincente. È questo l’amore di “padre, fratello ed amico”.

 

Don Bosco: annunciatore nel mondo

Il pittore ha posto l’evento a cielo aperto, fuori le mura della città che si vede nel retroscena. Ai suoi tempi Don Bosco si recò all’interno della città di Torino, girando qua e là sulle strade e piazze, per cercare ed incontrare ragazzi e giovani. Egli entrò nel loro mondo, veniva loro incontro mettendosi in un certo senso al loro livello, come è descritto nella lettera da Roma. Là era il suo posto preferito per svolgere la sua missione di pastore ed evangelizzatore: prendere i giovani là dove sono, ma aprendo i loro sensi verso “l’alto” e avviandoli verso “il cielo”. Don Bosco è dipinto, per così dire, con i piedi a terra, nel mondo reale, e con lo sguardo e con le mani verso il cielo; ed egli mai dimenticò né l’una né l’altro.

 

Don Bosco: testimone che invita

Nella liturgia dell’ordinazione sacerdotale il Vescovo invita l’ordinando: «Adesso vivi ciò che annunci!» È quello che Don Bosco fece per tutta la sua vita sacerdotale. Egli era convinto dell’amore infinito e incrollabile di Dio verso gli uomini, dell’amore di Dio che è più pronto a perdonare e ricostruire quello che è debole che a punire. Don Bosco era un testimone convincente con tutto il suo essere ed agire, nel cortile e nel laboratorio, nella scuola come nella chiesa: testimone della misericordia paterna del “buon Dio”, che mai dispera nell’uomo, ma lo conduce dalla separazione ed isolamento al ritorno “a casa sua”.

 

Quel dipinto del Koeder ci fa vedere un uomo da ammirare, ma di più è un invito di Don Bosco a noi: «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro».

 

 

Cari confratelli, membri della Famiglia Salesiana, amici tutti, da discepoli innamorati di Gesù e da suoi testimoni ed apostoli convinti e gioiosi portiamo i giovani a Cristo e portiamo il Vangelo ai giovani.

 

Don Pascual Chávez Villanueva

Rettor Maggiore


 


[1][1] BENEDETTO XVI, cfr. Sacramentum Caritatis, n. 84.

[1][2] BENEDETTO XVI, Lettera a Don Pascual Chávez Villanueva, Rettore Maggiore dei Salesiani, in occasione del XXVI Capitolo Generale, 1 marzo 2008, n. 4; cfr. CG26 degli SDB, p. 91.

[1][3] BENEDETTO XVI, cfr. Deus caritas est, n. 18.

[1][4] CG26 SDB, n. 24.

[1][5] BENEDETTO XVI, Lettera a don Pascual Chávez Villanueva, Rettor Maggiore dei Salesiani, in occasione del Capitolo Generale XXVI, n. 4; cfr. CG26 degli SDB, p. 91.

[1][6] Cfr. BENEDETTO XVI, Deus caritas est, n. 18.

[1][7] CG XXII FMA, Più grande di tutto è l’amore, n. 33.

[1][8] P. CHAVEZ, Non è giusto che noi trascuriamo la Parola di Dio, Saluto di apertura all’Assemblea dell’USG, Roma 21 novembre 2007.

[1][9] OR giovedì 6 agosto 2009, p. 8

[1][10] J. E. Vecchi, “L’areopago giovanile”, Note di Pastorale Giovanile (NPG) 1997, n. 4 (maggio), p. 3

[1][11] J. E. Vecchi, “Parlare di Dio ai giovani”, NPG 1997, n. 5 (giugno), pp. 3-4

[1][12] J. E. Vecchi, “Educare alla fede: l’incontro con Cristo”, NPG 1997, n. 3 (aprile), p. 3

[1][13] J. E. Vecchi, “Maestro, dove abiti?”, NPG 1997, n. 7 (ottobre), p. 3

[1][14] Cf.  DV 25.

[1][15] PO 6.

[1][16] PO 5.

[1][17] LG 11.

[1][18] J. E. Vecchi, “Lo riconobbero nello spezzare il pane”, NPG 1997, n. 8 (novembre), pp. 3-4

[1][19] MB IX, p. 61.

[1][20] Cfr. EN 19

[1][21] CG26 SDB n. 25

[1][22] Ibidem

[1][23] BENEDETTO XVI, Discorso di Sua Santità nell’Udienza ai Capitolari, 31 marzo 2008; cfr. CG26, p. 125

[1][24] PASCUAL CHÁVEZ VILLANUEVA, Sotto il soffio dello Spirito. Identità carismatica e passione apostolica. Corso di esercizi spirituali alle Capitolari FMA, LDC Torino 2009, p. 17.

[1][25] Cfr. AAS an. e vol. LXIV, 1972 N. 11, pp. 713-718

[1][26] A. AMADEI, Il Servo di Dio Michele Rua, vol. I, SEI Torino 1933, p. 30.

[1][27] Positio 54-55.

(Pascual Chávez ) 2010 autore: don Pascual Chavez

 

STRENNA 2010 DEL RETTOR MAGGIORE DEI SALESIANIultima modifica: 2010-01-01T21:13:14+01:00da gioiaepace
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