Quaresima. È l’ora del risveglio

Riflessione di Enzo Bianchi

Si avvicina il tempo della quaresima, tempo dei qua­ranta  giorni precedenti la Pasqua,  SF01000000_41049698_300 tempo da viver­si  come penitenziale, impegnati nel rinnovamen­to  della conversione, tempo che la Chiesa vive e ce­lebra  dalla metà del IV secolo d.C.
La quaresima – che la Chiesa con audacia chiama  ‘sacramento’ ( annua quadragesimalis exercitia sa­cramenti :  colletta della I domenica di Quaresima), cioè realtà che si vive per partecipare al mistero – è un tempo ‘forte’, con­trassegnato  da un intenso impegno spirituale, per radunare tut­te  le energie in vista di un mutamento del nostro pensare, par­lare  e operare, di un ritorno al Signore dal quale ci allontania­mo,  cedendo costantemente al male che ci seduce. La prima funzione della quaresima è il risveglio della nostra coscienza: ciascuno di noi è un peccatore, cade ogni giorno in peccato e perciò deve confessarsi creatura fragile, sovente incapace di ri­spondere  al Signore vivendo secondo la sua volontà.
Il cristiano non può sentirsi giusto, non può ritenersi sano, al­trimenti  si impedisce l’incontro e la comunione con Gesù Cri­sto  il Signore, venuto per i peccatori e per i malati, non per quan­ti  si reputano non bisognosi di lui (cf. Mc 2,17 e par.). Con l’A­postolo  il cristiano dovrebbe dire: «Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io» (1Tm 1,15). Ecco, riconoscere il proprio peccato è il primo passo per vivere la quaresima, e i padri del deserto a ragione ammoniva­no:  «Chi riconosce il proprio peccato è più grande di chi fa mi­racoli e risuscita un morto».
Il cammino quaresimale si incomincia con questa consapevo-­lezza,  e perciò la Chiesa prevede il rito dell’imposizione delle ceneri sul capo, con le parole che ne esprimono il significato: «Sei un uomo che, tratto dalla terra, ritorna alla terra, dunque convertiti e credi alla buona notizia del Vangelo di Cristo!». Co­sì  si vive un gesto materiale, una parola assolutamente decisi­va per la nostra identità e chiamata.
Di conseguenza, nei 40 giorni quaresimali si dovrà intensifica­re  l’ascolto della parola di Dio contenuta nelle sante Scritture e la preghiera; si dovrà imparare a digiunare per affermare che «l’uomo non vive di solo pane» (Dt 8,3; Mt 4,4; Lc 4,4); ci si do­vrà  esercitare alla prossimità all’altro, a guardare all’altro, a di­scernere  il suo bisogno, a provare sentimenti di com-passione verso di lui e ad aiutarlo con quello che si è, con la propria pre­senza  innanzitutto, e con quello che si ha.
Per la quaresima di quest’anno papa Francesco ha invia­to,  com’è consuetudine, un messaggio ai cattolici, ispi­randosi  significativamente a un testo, anzi a un solo ver­setto  densissimo di cristologia della Seconda lettera di Paolo ai Corinzi: «Conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi di­ventaste  ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8,9). Anche Benedetto XVI nel messaggio quaresimale del 2008 si era lasciato ispirare dallo stesso versetto, che è davvero un’affermazione decisiva perché condensa in sé l’incarnazione del Figlio di Dio, mettendone nel contempo in risalto lo stile.
Sì, la fede della Chiesa di Corinto, fondata dall’A­postolo  da pochissimi anni, confessa che Dio si è fatto uomo in Gesù, confessa che Gesù il Cristo, che era Figlio di Dio, che era Dio, al quale tutto ap­parteneva  – potenza, eternità, ricchezza, gloria –, si è spogliato di tutte queste prerogative e si è dun­que  fatto uomo tra di noi, uomo fragile, mortale, per essere in mezzo a noi, uno di noi, un figlio di Adamo come noi.
Ecco lo stile del nostro Dio, non di un qualsiasi Dio.  Io amo dire che il nostro Dio è un «Dio al contra­rio  » perché si rivela nella debolezza, nella povertà, nell’insuccesso secondo il mondo, nel servire noi anziché chie­dere  il nostro servizio. Questo è scandaloso, perché noi abbia­mo  l’immagine – che gli uomini sempre fabbricano e rinnova­no  – di un Dio potente, che regna, che si impone. Se il nostro Dio è un «Dio al contrario» rispetto alle nostre attese monda­ne,  anche suo Figlio, l’Inviato nel mondo, il Messia, è un «Mes­sia  al contrario». Non è venuto nello splendore, nella gloria, nel­la  straordinarietà di teofanie che abbagliano, ma nella povertà, nascendo non a caso in una stalla, come uno che non ha tro­vato  un luogo in cui venire al mondo neppure in un caravanserraglio (cf. Lc 2,7).
Questo, lo sappiamo, è «lo scandalo della croce» (Gal 5,11), è ciò che lo stesso Paolo confessa nella Lettera ai Filippesi, in quell’inno che contiene il medesimo movimento: dal cielo alla terra, dalla condizione di Dio a quella mortale, da Signore a schiavo, da On­nipotente  a crocifisso in una morte ignominiosa, «obbediente fino alla morte, e alla morte di croce» (cf. Fil 2,6-8). Citando il concilio, papa Francesco ri­corda:  «Dio in Gesù ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo» ( Gaudium et spes  22).
È in questa povertà che Gesù, il Figlio di Dio, ha volu­to  stare con noi, essere l’Emanuele, il Dio-con-noi (cf. Is 7,14; Mt 1,23). Questa sua povertà, che era kénosis, svuotamento, abbassamento, ha permesso a Gesù la prossimità a noi, il condividere la nostra condizione, e dunque gli ha permesso di amare nell’empatia e nel­la  simpatia per noi. E così ci ha insegnato la via della fiducia, del servizio, dell’«amore fino alla fine» (cf. Gv 13,1), della compassione e del perdono. Quella po­vertà  che il Messia ha assunto è diventata per noi una via di ricchezza, certo non mondana, ma una ricchezza di comunione con Dio stesso e con tutti gli uomini.  In questo messaggio, dunque, papa Francesco non fa soltanto un’esortazione morale ai cristiani, ma ricorda innanzitutto la fonte di ogni azione cristiana: la fede. Dalla fede, infatti, scaturisce l’autentica carità; è conoscendo vera­mente  Gesù Cristo che noi possediamo la vita per sempre (cf. Gv 17,3); è conformandoci a lui nella nostra vita, è vivendo co­me  lui ha vissuto e con il suo stile che possiamo seguirlo e par­tecipare  al suo Regno. Questo riguarda ciascuno di noi e ri­guarda la Chiesa tutta.
Sempre nel concilio Vaticano II si legge un passo purtroppo po­co  ricordato, ma profondamente ispirato alla lettura dell’in­carnazione  fatta da Paolo: «Come Cristo ha realizzato la sua o­pera  di redenzione nella povertà e nelle persecuzioni, così pu­re  la Chiesa è chiamata a percorrere la stessa via per comuni­care  agli uomini i frutti della salvezza… e benché per eseguire la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, la Chiesa non è fatta per cercare la gloria sulla terra» ( Lumen gentium  8).
Dopo la confessione della fede, ossia il fondamento teologico, papa Francesco richiama brevemente la necessaria testimo­nianza  dei cristiani. Come Dio ha voluto salvare gli uomini con la povertà, così la Chiesa e ogni cristiano devono percorrere la stessa via, perché la «ricchezza di Dio» può essere accolta e o­perare  là dove c’è la povertà umana. E dove c’è la povertà uma­na  – lo constatiamo ogni giorno a partire dalla conoscenza di noi stessi – là c’è anche la miseria. La povertà è la nostra condi­zione  umana fragile e la miseria si insinua in essa minaccian­do  fortemente l’humanitas , il nostro cammino di umanizza­zione.  La povertà è la condizione in cui è possibile conoscere la beatitudine («Beati voi poveri»: Lc 5,20); la miseria è il degrado della povertà, è l’alienazione, l’oppressione e la schiavitù che in essa si può insinuare, contraddicendo la dignità e la vocazione dell’uomo.
Il nostro Dio, rivelatosi ai figli di Israele con la loro liberazione dalla schiavitù d’Egitto, è un Dio che «ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza …, guardò la loro condizione e se ne diede pensiero» (Es 2,24-25). Così si è rivelato Dio e così noi dobbiamo fare. Innanzitutto «ascoltare» l’altro, gli altri: ascol­tarli  nel loro essere uomini e donne, fratelli e sorelle in umanità. È decisivo l’ascolto dell’altro, prima di ogni nostra scelta o com­prensione  di lui: là dove c’è un uomo, una donna, io devo met­termi  in ascolto. Dopo l’ascolto dell’altro, il cristiano ‘ricorda’ che anche lui è stato ascoltato da Dio, anzi che Dio lo ha pre­ceduto  in ogni sua ricerca di comunione, e dunque deve rico­noscere  la paternità di Dio che fonda nella fede la fraternità e la sororità. Ecco allora il «guardare», che non significa solo ve­dere,  ma avvicinarsi e guardare l’altro negli occhi, volto contro volto, negando ogni lontananza.
Soprattutto oggi, immersi come siamo nella comunica­zione  in tempo reale, ma senza incontrare nella realtà l’al­tro,  dobbiamo vigilare che la prossimità sia sempre e­sercitata  come un passo che decidiamo per rendere l’al­tro  prossimo (cf. Lc 10,36). E infine, quando sappiamo guarda­re  l’altro e discernere il suo bisogno, la sua sofferenza sempre diversa, quando riconosciamo la sua singolarità nel patire, al­lora  «ci diamo pensiero», ci prendiamo cura di lui, come fa il no­stro Dio!
Così facendo, scopriremo la miseria materiale, il bisogno di ci­bo,  vestito e casa, presente nell’altro; scopriremo la miseria mo­rale,  l’alienazione al vizio, la degradazione delle per­sone  in cammini di schiavitù, che spingono uomini  e donne sulla via della morte, vittime della storia e  dell’egoismo umano; scopriremo anche la miseria  spirituale di chi è alienato agli idoli, non conosce u­na  vita interiore, non dà senso alla propria vita. Il pa­pa  ci invita dunque alla  diakonía,  parola del Nuovo  Testamento che indica il servizio agli altri. Se il Figlio  di Dio si è fatto povero per stare in mezzo a noi, per  essere come noi, si è fatto anche «servo» per servir­ci,  per piegarsi davanti a noi, per lavarci i piedi (cf.  Gv 13,1-15): «Io sto in mezzo a voi come colui che ser­ve  » (Lc 22,27), ha detto Gesù.
Questo il denso messaggio delle parole di papa Fran­cesco,  che così conclude, citando ancora una volta  Paolo: «Sì, noi siamo come afflitti, ma sempre lieti;  come poveri, ma capaci di arricchire molti; come  gente che non possiede nulla e invece possediamo  tutto» (2Cor 6,10). Se davvero tutti i cristiani cattoli­ci,  sulla traccia fornita da papa Francesco, tentasse­ro  con risolutezza di vivere questa quaresima, allo­ra  la riforma della Chiesa che tanti aspettano e chie­dono  a Francesco potrebbe muovere i primi passi.  Ma si smetta di chiedere al papa di operare lui ciò che  riguarda tutti noi e che dovrebbe farci mutare qual­cosa  della nostra vita cristiana: dovrebbe farci ope­rare  la conversione, nulla di più, nulla di meno.
    Enzo Bianchi – Avvenire 23/02/2014 –
Quaresima. È l’ora del risveglioultima modifica: 2014-02-24T14:25:47+01:00da gioiaepace
Reposta per primo quest’articolo